Piante Tropicali - Alcune esperienze di semina, riflessioni biochimiche e suggerimenti

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view post Posted on 23/7/2017, 22:43     +1   -1
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non ho una vita... ma si dà il caso che mi stia bene così ;)

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ALCUNE ESPERIENZE DI SEMINA
Resoconti e riflessioni - Prima parte
di Fabrizio Lucente

Mi ero proposto, all’inizio del corrente anno, di compiere una serie di esperienze – già in precedenza congetturate – riguardanti tecniche e modalità di germinazione, per tutte quelle specie le cui semine erano sinora, nel corso degli anni, fallite.
Purtroppo, la mancanza di tempo – oltre che di molto del “materiale” necessario- mi hanno da ciò distolto; ho comunque deciso di riassumere, in queste brevi note, l’esito effettivo di alcune delle mie più recenti esperienze di semina, includendo senz’altro alcuni dei più significativi risultati del passato.
A proposito delle esperienze programmate ma non più effettuate, e che avrebbero comportato l’impiego di svariate sostanze come possibili “attivatori di germinazione”, desidererei richiamare l’attenzione su alcune di quelle pratiche “casalinghe”, da taluno riguardante con sufficienza per la loro apparente “ingenuità”, come quella consistente nell’utilizzare la Camomilla come attivatore di germinazione; suggerimento che, a dir la verità, sulle prime non persuase affatto neppure me; ma illuminante fu, a riguardo, il successivo apprendere di un altro “rimedio casalingo”, la Valeriana, che a detta di qualcuno avrebbe le stesse proprietà.

L’abbinamento mi divenne allora di colpo significativo, sovvenendomi dell’esistenza di un “comune denominatore” biochimico tra i due suddetti tradizionali rimedi: considerai infatti, la serie dei valepotriati, principi attivi di quest’ultima pianta, esteri variamente sostituiti, che si possono considerare derivati da un nucleo ciclopentano-piranico: nonostante la trasformazione piranica di un anello, (sostituzione di C con O), quest’ultima molecola ricalca la configurazione spaziale dell’Azulene, idrocarburo aromatico a doppio anello da cui deriva una serie dei principi attivi della Camomilla (quelli responsabili dell’azione antipiretica-antinfiammatoria).




E' quindi verosimile che esista una affinità di effetti, benché in ambito biochimico nulla sia dato a priori, e la sperimentazione senz’altro si imponga. Ma è sciocco contrapporre, quasi “ideologicamente”, rimedi “naturali” e “chimici”, in quanto, in definitiva, tutto è “chimico”!
D’altronde, un altro idrocarburo a “doppio anello”, il Naftalene (la comune naftalina), entra nella composizione del noto ormone radicante NAA (acido naftil-acetico), e il naftalene stesso presenta attività fito-ormonali.

Ma generalmente più efficaci sono i derivati dell’indolo, come il più attivo ormone radicante IBA, acido indol-butirrico.
Data la grande diffusione di derivati dell’indolo in tutto il regno Vegetale – specialmente nell’ordine Gentianales, Rutales, Passiflorales e Fabales – non è da escludere un possibile ruolo fisiologico dei medesimi nei processi germinativi di molte “difficili” Mimosaceae o Papilionaceae; conoscendole meglio, ci si rende conto che i semi di ben poche “leguminose” sono in realtà “facili” come il classico fagiolo.
Esiste una specialità farmaceutica, a livello di “integratore alimentare” – contenente 5–ossitriptofano – precursore della Serotonina, che potrebbe essere sperimentato in tali casi.

– E’ affascinante pensare che Serotonina e Melatonina (anch’essa ormai disponibile ed utilizzata contro insonnia, jet-lag, ecc.) entrambe derivati dell’indolo, l'una neurotrasmettitore e l'altra ''neuro-ormone'' con funzione, fra l’altro, di “sincronizzazione dei cicli biologici, potrebbero esser chimicamente affini a quelle stesse molecole che “regolano i tempi” – agendo ad esempio sulla germinazione – anche negli organismi vegetali.
Si può addirittura supporre, per le specie a disseminazione zoocora, che siano forse non gli enzimi digestivi, ma proprio i cataboliti presenti nelle feci (scatolo, indolo, acido indol-acetico, responsabili dell’odore), gli attivatori della germinazione, almeno per alcuni taxa, ad esempio le Solanacee.

- E’ anche suggestivo considerare che il Triptofano, l’aminoacido precursore di tutti questi composti, è – forse – l’”ultima acquisizione” del codice genetico. Conclusione questa, a cui mi conducono considerazioni prettamente logico-statistiche, infatti, nelle esperienze di Miller, Urey, Ponnamperuma ed altri, riguardanti la sintesi in vitro del “limo primordiale”, il triptofano non è mai menzionato, fra i pur numerosi aminoacidi individuati nei prodotti di reazione.
E’ una molecola eterociclica, “complessa”, meno “probabile”. Forse se ne formò, sì, ma in tracce minime, e minima fu così la probabilità statistica che avvenisse la selezione di una tripletta – e relativo T-RNA – ad esso dedicato. Forse i “protobionti” non lo annoveravano neppure tra i 20 aminoacidi che oggi formano le proteine di tutti gli organismi noti, ossia gli aminoacidi la cui codifica è affidata ad una o più triplette del codice genetico di ogni organismo attuale.

Il fatto poi che, salvo eccezioni, una sola tripletta su 64 codifichi per trp, credo rifletta, in termini statistici, proprio la iniziale “rarità” della molecola nel “limo primordiale”, o addirittura la sua comparsa avvenuta solo in un secondo tempo, forse come semplice catabolita degli ipotetici “protobionti non-trp”.
Catabolita, il cui progressivo accumulo nel mezzo ambiente dovette giungere a rappresentare, da un lato un fattore limitativo, “tossico”, (da cui forse già la funzione regolatrice, poi “ormonale”, dell’attuale melatonina, che “rallenta” alcuni ritmi biologici), ma dall’altro una enorme potenzialità per quei primi protobionti che, per mutazione strutturale di un T-RNA, furono in grado di acquisirlo al proprio codice genetico, quindi di incorporarlo nelle proprie proteine enzimatiche e strutturali, aumentando così, di colpo, di un fattore “venti” la variabilità delle stesse. E non meraviglierebbe quindi, che tali mutanti abbiano potuto “cancellare” tutti (?) i “protobionti non-trp”, e che tutti gli organismi il cui codice genetico sia oggi noto, includano senz’altro in esso il triptofano.

Osservando una tavola del codice, dove è illustrata la corrispondenza tra Triplette e Aminoacidi, si notano tre caselle di triplette adiacenti, indicate come “stop” o “non senso”, (sono triplette che non codificano nulla e fungono da “arresto lettura”), la casella – tripletta del TRIPTOFANO è adiacente ad esse, e fu probabilmente anch’essa in origine una casella “non senso”, fino alla mutazione di un T-RNA.




Quasi a conferma di tale possibilità, la recente scoperta che nei Mammiferi (non a caso un taxon dei più recenti ed “evoluti”) non una, ma due triplette codificano per il triptofano; e la seconda, la “neo-acquisita”, è adiacente alla prima, e corrisponde proprio ad una di quelle tre “caselle” che, per (quasi) tutti gli altri taxa, sono “non senso” (= stop); ma in effetti, credo si tratti, per così dire, di residue “caselle vacanti”, che in principio erano certamente molte di più.
Il fatto che, in organismi superiori, una di esse sia stata ulteriormente “occupata” non da un “nuovo” aminoacido, ma ancora dal triptofano, senz’altro dimostra:
1) la possibilità di conversione di una tripletta, da “non senso” a “codificante”;
2) l’importanza che il triptofano ha, probabilmente proprio in quanto precursore di neurotrasmettitori, e ciò certamente in relazione allo sviluppo, unico tra i viventi attuali, raggiunto dal snc dei Mammiferi.
Forse in quei “proto-bionti non-trp” da me ipotizzati, il triptofano, pur assente dalle loro proteine, veniva sintetizzato – un po’ come oggi l’adrenalina o la tiroxina, a partire da comuni aminoacidi – proprio con finalità “regolatorie”, “proto-ormonali”.

Nel regno vegetale, comunque, il triptofano è decisamente meno frequente, e la sua “essenzialità”per l’uomo rende infatti talvolta carenti diete di sole proteine vegetali : ad esempio, la zeina, proteina principale del Mais, ne è totalmente priva (come però anche il collagene fra le proteine animali: ossia la "gelatina", il principale componente di certe popolarissime "carni in scatola", assai meno nutrienti di Soia o Lenticchie.

A fronte d'una generale scarsità di triptofano nel Regno Vegetale, la sua relativa abbondanza che caratterizza invece alcuni, specifici raggruppamenti tassonomici -come appunto i Legumi- può essere ritenuta non del tutto casuale.


Nel complesso, si può osservare che una “generica”, o più o meno selettiva azione ormonale sui vegetali, sembrerebbe posseduta da varii composti “aromatici”, ed in definitiva la più elementare e fondamentale struttura attiva in tal senso sembrerebbe essere rappresentata dal doppio legame C=C.
Infatti, il più semplice (e forse più generico) composto organico fito-attivo è l’etilene, H2C=CH2, noto induttore di maturazione di frutti, ma attivo anche (spesso negativamente) sulle foglie – quelle di pomodoro sarebbero particolarmente sensibili – ed infine – forse – sulle radici, benché la natura gassosa non ne renderebbe comunque agevole l’impiego.
Ipotizzo, comunque, che sia proprio l’Etilene il responsabile della radicazione, in un'altra pratica “casalinga” talora suggerita, quella di porre un apice di ananas su terriccio, con accanto uno spicchio di mela e chiudere il tutto in un sacchetto di plastica trasparente: ignoro l’esistenza di analisi a riguardo, ma l’Etilene potrebbe facilmente derivare dal metabolismo batterico di due acidi organici frequenti nella frutta: l’acido fumarico (che per doppia decarbossilazione, comunissima modalità di attacco batterico, darebbe appunto l’Etilene), o il succinico, che darebbe lo stesso risultato previa deidrogenazione (anch’essa facilmente eseguita da molti ceppi batterici).

Sono dunque numerose, e spesso non difficilmente reperibili, le sostanze con cui varrebbe la pena di sperimentare. C’è chi afferma di aver provato, con successo, una “soluzione” ricavata da aringhe affumicate, che conterebbero i composti aromatici che in natura attivano la germinazione dopo gli incendi.
Più “mirata” dovrebbe essere la composizione di “cartine” impregnate di prodotti di fumigazione vegetale, distribuiti anche dall’H.B. di Kirstenbosch: sarebbero utili per molte specie sudafricane ed australiane, ma, almeno per queste ultime sulle quali le ho provate, non sembra purtroppo aver avuto alcun effetto; ciò, però, non deve dissuadere dal compiere altri tentativi.
In altri casi, e si tratta spesso di specie tropicali e con semi grandi, privi di periodo di quiescenza, il problema della germinazione riguarda semplicemente l’”età” del seme: occorre tener presente che, in tali casi, anche 30 giorni dalla raccolta possono essere già troppi, (a meno di non adottare alcuni semplici accorgimenti). Sarebbe infatti opportuno insistere presso le ditte fornitrici – che però dovrebbero a loro volta inoltrare tale raccomandazione ai fornitori in loco – perché tali semi, oltre ad essere forniti non appena disponibili, senza tempi di “deposito”, siano imballati in torba inumidita, o vermiculite, che ne ritarderebbe o inibirebbe la disidratazione, loro peggior nemico; non sarebbe poi tanto complicato, ed i vantaggi sarebbero certi.
Solo raramente ciò accade: la Richter’s, ad esempio, invia in busta sigillata ed immersi in vermiculite appena umida, i semi di Sanguinaria canadensis, e di Hydrastis canadensis, con risultati efficaci: non estende però lo stesso accorgimento a Peumus boldus, Thevetia peruviana, Atractylodes m., Sassafras albidum, ed altre che certamente ne beneficerebbero, come Azadirachta indica – che ha però almeno l’accortezza di spedire in agosto-settembre, appena raccolti – eppure già all’arrivo, c’è un calo del 50-70% nella germinabilità.
Il medium di cui sopra sarebbe efficace, ignoro perché mai non lo usino: i semi di Azadirachta, pur avvolti da un perispema legnoso, si disidratano (e presumibilmente si ossidano) come quelli, simili, dei Citrus (Rutaceae, ma molto prossimi alle Meliaceae), e come quelli, pressoché identici, dell’affine Ekebergia sp. (Meliaceae), sudafricana, di cui per varie ragioni, non sono mai riuscito ad ottenere una sola germinazione: questi ultimi maturano in giugno, ma, o per ritardi postali o per complicazioni nell’evasione dell’ordine, il mese – o due – di ritardo è sempre stato fatale.

-nota. In data di revisione di questo vecchio articolo -inizio settembre 2005- sono finalmente riuscito ad ottenere tre germinazioni (su sei semi) per Ekebergia pterophylla, speditami il 10 di Luglio e ricevuta, anche in questo caso, con notevole ritardo (12 Agosto); tuttavia, avevo pregato la Ditta (Silverhill Seeds) di confezionare i semi in bustina plastica, con vermiculite appena umida; all'arrivo, i semi erano ancora freschi, e quattro di essi addirittura già in fase di germinazione: la crescita prosegue regolarmente, per ora, con una sola plantula che è successivamente marcita per eccesso d'umidità.

In una indagine condotta su semi di Azadirachta, si è confrontata la conservabilità massima teorica di questi – fino a sei mesi in condizioni ideali – con quella, davvero minima – un paio di settimane al massimo – di Shorea robusta (Dipterocarpaceae): i semi di quest’ultima, invecchiando, presentano livelli decrescenti di Superossido-dismutasi, enzima che rallenta la inesorabile degradazione ossidativa dei grassi di riserva; in Azadirachta, al contrario, il livello di superossido-dismutasi salirebbe progressivamente nel corso dell’”invecchiamento” dei semi.
In entrambe le specie, calerebbe invece progressivamente il livello di altri due, forse più importanti enzimi: la perossidasi, e la catalasi, enzima quest’ultimo, di cui è facile constatare la presenza anche nei tessuti animali. E’ il responsabile del “friggere” dell’acqua ossigenata applicata su ferite o tessuti lesi, avendo infatti il compito di “liberare” l’ossigeno dai perossidi – come appunto il “perossido d’idrogeno” (= acqua ossigenata) – formatisi nel metabolismo cellulare.

La catalasi è quindi un enzima presente nei nostri tessuti, così come nei semi di Shorea e d’altre piante e, tenendo pure conto che un enzima è, fondamentalmente, il “prodotto” di un gene che per esso codifica, notiamo per inciso come questo gene – come moltissimi altri – sia condiviso addirittura fra animali e vegetali! Ciò valga come risposta ai tanti "pseudo-ecologisti" e “bio-integralisti” vari, che inorridiscono quando si trasferisce in un DNA "animale" il gene di una pianta, o viceversa!

In ogni caso, un approccio pratico e parzialmente efficace al problema non sarebbe neppure troppo impegnativo, perciò non comprendo perché, varie e serie ditte, pur consapevoli del problema della breve vitalità di molti semi, non adottino almeno alcuni accorgimenti di base. Infatti inviano i semi soltanto al momento della maturazione, oppure conservano al freddo alcune specie, ma non altre, per le quali il problema sembrerebbe anche più cogente..
E’ il caso delle Lardizabalaceae, e, per quanto la ditta abbia fatto del suo meglio inviandomi semi appena pervenutile, non ho mai ottenuto la germinazione di Decaisnea fargesii (ottobre, ma anche giugno), Stauntonia hexapylla (novembre) e Lardizabala biternata (marzo-aprile, dal Cile), sebbene in un caso una residua (ma insufficiente) vitalità persisteva, per quest’ultima, in un singolo seme. Sembravano tutti disidratati; un imballaggio umido alla fonte ovvierebbe senz’altro all’inconveniente.
Per semi piccoli e deperibili – come quelli di molte Gentianaceae – credo che la refrigerazione sia fondamentale, oltretutto fisiologica dato l’habitat della gran parte di esse; ma, purtroppo, non sembrano rientrare nell’ambito delle specie immagazzinate al freddo.
Particolari problemi affliggono pure l’ordine Ericales, anche questo con semi spesso assai piccoli, e probabilmente deperibili; per le Ericaceae, Bruckenthalia spiculifolia e Chamaedaphne canaliculata, semi vecchi sicuramente di oltre un anno germogliano nell’arco di uno-due mesi, anche senza vernalizzazione.
Fallimento totale, o quasi, per le altre Famiglie dell’Ordine: le Epacridaceae, ad eccezione di Astroloma ciliatum, di cui tre semi (su più di venti) germinano dopo tredici mesi dalla semina (in marzo) – contenitore svernato all’esterno – sono semi grossetti, legnosi, (a differenza di quelli di Richea, Epacris, ecc.) più simili, nel “parallelismo” con le Ericaceae, a quelli di Arctostaphylos, ad esempio, questi ultimi forse ancor più “refrattari”, e necessitanti spesso di due o più vernalizzazioni.
Le Epacridaceae sono simili alle Ericaceae e di queste vicarianti nel continente australiano, dove l’isolamento ha determinato un’evoluzione “parallela” a quella delle loro ben più note e diffuse parenti; qui, alle note difficoltà di germinazione delle specie australiane in genere, si sommano quelle tipiche dell’Ordine.

Nessuna germinazione, (almeno su osservazioni protratte per circa due anni), per le affini Pyrolaceae (Pyrola, Moneses ed Orthilia sp.) e per le Diapensiaceae (Diapensia lapponica), tutte dalla semente fine come polvere; ma qui, il problema principale credo consista nell’ulteriore progresso di quel rapporto, esistente probabilmente in tutte le Ericales, tra radici e funghi simbionti (la cui morte, a seguito di un pH elevato, inabilita le radici di azalee ed affini ad assorbire il ferro, determinandone la clorosi e la morte); nella Famiglia che probabilmente è la più evoluta dell’Ordine, quella delle saprofite Monotropaceae, prive di clorofilla, la dipendenza dal fungo (che degrada i composti organici rendendoli assimilabili per la pianta) è totale e perenne; tuttavia, ritengo plausibile che, anche nelle meno specializzate Pyrolaceae, tale simbiosi sia essenziale almeno per la germinazione (come accade nelle Orchidee, insomma, dalla semente di fatto “pulverulenta” come quella delle Pyrolaceae, ecc...).
Un testo da me recentemente consultato conforterebbe indirettamente questa supposizione, descrivendo come “indifferenziato” l’embrione nei semi delle Pyrolaceae. Può darsi che il fungo abiliti l’embrione, in questi minuscoli semi, a compiere l’ultimo stadio della maturazione.
Suggerirei, a chi abitasse in prossimità di brughiere o simili, di tentare la semina di tutte queste specie (anche delle Epacridaceae) in terriccio prelevato in prossimità di Ericaceae (o Pyrolaceae, diffuse nella fascia prealpina) spontanee, compiendo tentativi “incrociati” fra le diverse specie: potrebbe esistere una “compatibilità latente”, un “pre-adattamento”, in qualche specie nostrana di funghi simbionti.


In altri casi, i problemi sembrano sorgere dalla percentuale di olii contenuti nel seme, olii spesso instabili, capaci di dar luogo a perossidi inutilizzabili e per di più dannosi per l’embrione.
E’ curioso osservare, però, che semi ugualmente “oleosi”, perfino nell’ambito della stessa Famiglia, abbiano longevità tanto diverse; caso tipico è quella della Hevea brasiliensis, (“albero della gomma” la cui esportazione, in tempi in cui la navigazione durava mesi interi, fu infine possibile solo grazie alle “celle di Wardian”, in pratica serrette di pre-semina; ma basterebbe ritengo un buon imballaggio in torba umida, atto stavolta principalmente a sottrarre il seme all’eccessivo contatto con l’ossigeno, evitando però di asfissiarlo totalmente”).
I semi dell’affine Ricino, sono quasi identici in scala ridotta a quelli di Hevea, eppure sembra possano serbarsi per anni.
Sarebbe interessante, al di là dell’esigenza di ottenere semi freschi e germinabili, capire le ragioni biochimiche di tale sorprendente “divergenza”.
Ritengo possa trattarsi di differenze a carico delle molecole lipidiche, probabilmente in alcune specie prevalgono acidi grassi insaturi – dove la labilità del “doppio legame” faciliterebbe la perossidazione – e ciò abbrevierebbe significativamente, almeno in caso di esposizione all’aria libera, la vita dei semi, infatti a volte semi di specie deperibili “quiescono” nel terreno per anni, forse perché protetti dal contatto con l’aria libera. E’ sì noto che gli “olii vegetali”, tratti da semi di piante tropicali, sarebbero nutrizionalmente meno raccomandabili, proprio in quanto più “saturi”, ma ciò non rappresenta probabilmente una regola.
E’ plausibile che i semi di molte specie tropicali, tipiche di ambienti “competitivi” dove occorre crescere al più presto, abbondino di questi grassi insaturi, di pronta metabolizzazione, ma altrettanta rapida degradazione, se non utilizzabili al fine specifico entro breve tempo; emblematico il suesposto caso di Shorea robusta, e nulla ottenni mai (in dicembre – aprile – agosto) dall’unica Dipterocarpacea, Monotes sp. i cui semi riuscii a procurarmi, ma che sono sempre marciti, sia seminando l’intero endocarpo legnoso, sia spaccandolo e piantando i semi così estratti.

Varrebbe certo la pena – ovviamente laddove si disponesse di ampli quantitativi di semente – sperimentare conservazioni sotto vuoto, o in atmosfera rarefatta, a ridotto tenore di ossigeno: ottenere una “longevità” di sei mesi, consentirebbe già la diffusione di molte, fra queste specie.
Misurare il “grado di insaturazione” dei varii olii sarebbe comunque interessante, e non dovrebbe esser difficile, anche senza una complessa strumentazione, applicare il vecchio metodo di determinazione del “numero di iodio”, a patto ovviamente di disporre di semente in quantità tale da ricavarne olio a sufficienza per l’esame.

Sempre nelle Euphorbiaceae, (subfam. Phyllanthoideae), per Pseudolachnostylis maprouneifolia i semi (rinchiusi nell’endocarpo legnoso di una drupa a deiscenza lenta, (è bene aprirla con deboli colpetti di martello sull’asse verticale), benché vecchi di circa un anno, serbano ancora il 30-50% della vitalità, che però scende pressoché a zero in due anni. Germogliano in 10-25 giorni, e le piantine non resistono al diradamento (necessarie semine individuali).
Tutto ciò sembra valere, più o meno, per generi affini: Breynia, Phyllanthus (P. reticulatus, vitale se acquistato in marzo-aprile (da Silverhill Seeds); Emblica officinalis (in varie epoche, germinazione erratica fra 20 e 60 gg., di non più del 5-10%).
Sauropus androginus – acquistato in luglio, poi nuovamente in ottobre 2001 – dà, come germinazioni, circa 4 su 10, in entrambi i casi – piantule robuste ma a crescita lenta. La germinazione richiede di norma uno-due mesi, sporadicamente di più.
Stessi tempi per Antidesma venosum, in Luglio, ove occorre però estrarre dal cassone umido i vasetti con le plantule germinanti, in quanto molto sensibili al marciume del colletto. Un po' più pronta la germinazione di Antidesma voegelianum, circa 20 giorni da una semina di metà Agosto.
Euphorbia baselicis, di suoli aridi (semina 28/7: due piantule dopo un mese, più due dopo 70 giorni, dopo piogge, su 8 semi).
Euphorbia portlandica nasce in 10 -15 gg. (70%), ma una plantula germoglia dopo quasi un anno.
Mai ottenuto nulla dalle africane Bridelia mollis e B. micrantha, da Lachnostylis hirta (raggrinziti), da Schinziophyton rautannenii (endocarpo legnoso durissimo, e tentando di aprirlo si spacca il seme). Forse occorrerebbe un preparato batterico di quelli impiegati per “digerire” le ceppaie, previa scarificazione del seme e molto calore. Lo stesso per i simili – più piccoli – semi di Givotia madagascariensis, seminata tre mesi fa. Anche gli australiani Petalostigma sp. e Ricinocarpus pinifilius, con semi simili a Ricinus (questa volta molto piccoli) non germogliano mai (varie epoche di acquisto) e, ispezionati circa due mesi più tardi, risultano marciti; Hymenocardia ulmoides (Sottofamiglia Phyllanthoideae), varie epoche di ordinazione, germoglia bene (40-60%) in 10-30 gg. anche se la crescita è lentissima e la “adattabilità” alla coltivazione sembra complessivamente scarsa.
Hymenocardia acida (acq. 3/2002 - 1/2003, niente, marciti dopo due mesi).
Jatropha sp.pl. – la longevità media non dovrebbe superare i 6 mesi – dopo un anno, un singolo seme (su 10-20) può ancora germinare. La J. curcas sembra particolarmente deperibile 4/5 mesi dopo la raccolta; nessuno germinò, su 9 (ed anche qui, la stretta parentela con Ricinus fa apparire il fatto enigmatico).
Manihot sp. (acquisto e semina 3/1997, germ. 4-5/1998, tutti (3/3); ma, piantando semi molto freschi, la germinazione può essere rapida (10-20 gg.)
Aleurites fordii – indicata come “deperibile” maturerebbe in marzo ma, per complicazioni doganali, mi pervenne in giugno. Semi con involucro legnoso, non duro come Schinziophyton, però. La ditta consigliava trattamento con Acido Ascorbico, senza precisare però tempi e dosi; ignoro se esso abbia funzione meccanica di “ammorbidimento” (come varii acidi “forti”, tra cui il solforico), od intervenga pure nei processi trofici dell’embrione.
Rinunziai a una semina ortodossa ma, per non gettar via questi grossi semi ormai vecchi, li posi come “drenaggio” in un vaso di coccio, rimasto all’aperto in inverno; ed ebbi la sorpresa, la primavera seguente, di veder spuntare una robusta piantina di A. fordii!
Drypetes sp., presenta semi assai vicini alla specie precedente per dimensioni ed aspetto; non nacque purtroppo nulla, da una semina dello scorso febbraio; ispezionati alcuni mesi più tardi, i semi si rivelarono internamente marciti.
Anche per Mallotus japonicus, occorre pazienza, se non sono freschissimi: semi 1/2001, germ. irregolare tra 5 e 7/2001, dovrebbero conservarsi per almeno 6 mesi, a temperatura ambiente. Ma altri semi, piantati nel novembre 2002 - appena raccolti - vasetto svernato all'aperto - hanno dato una prima germinazione soltanto nell'agosto 2003, ed altre 8 - 10 nell'ottobre 2003.
Putranjiva roxburghi: acquistata in tre riprese, tra 5/2001 e 8/2001 (nell’ultimo caso dopo 20 giorni), due soli principio di germ. (forse per le temperature più elevate?), ma la plantula non riesce ad emergere, forse disidratata dall’agripelite pura in cui l’avevo posta, per evitarle – all’opposto il marciume del colletto che aveva colpito l’altro esemplare – germ. comunque deboli, stentate.
Plukenetia volubilis – (Acalyphae) grossi semi discoidali, e germ. stabile (prossima al 100%), epoca anche a 20-25 gradi, germ. in 5/15 giorni, ed è importante la porosità del substrato, la non copertura dei contenitori (pena il sicuro marciume della plantula germinante) e vasetti singoli, soffre molto il rinvaso, anche se accurato, e piante già assai robuste possono entrare in una stasi vegetativa con esiti degenerativi. Soffre gli eccessi d’acqua pressappoco come Ricinus (cui le plantule inizialmente somigliano molto) anche quando, in piena crescita, sembrerebbe assimilarne in quantità. E’ opportuno seminarli sotterrandoli appena, purché il substrato sia sempre umido, in un composto capace di assorbire, ma al contempo arieggiato: l’agriperlite pura, o la pomice, è forse l’ideale. Converrebbe impiegare vasetti di torba evitando così ogni trauma da trapianto, interrandoli a tempo debito in un substrato più ricco.
Acalypha sp. pl. Sudafricana mai germinata; i semi, benché piccoli (e di specie non prettamente tropicale come la precedente) sembrano avere minore longevità.
Chrozophora tinctoria (specie nostrana) deve vernalizzare; seminata in ottobre, germina massicciamente in giugno.
Tra le famiglie con semi oleosi, vorrei segnalare il totale – sinora – fallimento con le Pedaliaceae: nulla, per anni, da Harpagophytum procumbes (varie epoche), da Holubia saccata, da Sesamum sp. pl., Dycerocarum eriocarpum e una sola, ma debole e presto marcita, plantula da Dycerocaryum senecioides, di cui vengono forniti i durissimi frutti spinosi. Con difficoltà, riuscii ad estrarre qualche seme integro, ma con l’esito di cui sopra.
Questa famiglia ha semi tra i più oleosi (sembra anche oltre il 50% di olii), eppure vivono quasi tutti in habitat (sub) desertici, che ben di rado offrono piogge e possibilità germinative in tempi brevi.
Gli stessi fornitori locali (Silverhill Seeds) mi confermarono di non aver ottenuto germinazione di Harpagophytum, e consigliarono di provare con temperature più alte. Usai così la “serretta” in gennaio, ottenendo una germinazione in meno di un mese: in maggio provai a “decorticare” delicatamente – con le sole unghie – i semi rimasti. Ripiantandoli, in “serretta” ottengo una germinazione dopo solo dieci giorni. In aprile semino per la prima volta Sesamothamnus lugardii, dai semi “piatti”, (più simili a quelli delle affini Bignoniaceae, come Rhigozum, ma differente è la postura dell’embrione). Seminati in superficie, in ambiente umido, germinano tutti, con plantule robuste, in soli 3/7 giorni! – anche in questo, più che le Pedaliaceae ricordano alcune Bignoniaceae e le plantule, il cui fusticino s’ingrossa – subito quasi a “caudex”, temono solo gli eccessivi apporti idrici.

Per le “oleose” Thaceae, la vitalità è di consueto limitatissima: semi di Camelia sp. pl., “vecchi” di tre-quattro mesi, marciscono poco dopo la semina, ma stranamente, i semi - assai simili – di Tutcheria spectabilis, sembrano molto più serbevoli – benché non mi risulta che la ditta fornitrice li refrigeri o altro – e germogliano bene in febbraio, così come in luglio (circa 50%) entro una/due settimane – ma le plantule sono sensibilissime al marciume del colletto, ed è meglio seminare subito all’aria libera, ed in agriperlite pura. In ottobre, la germinazione richiese 4/6 settimane. Quest’anno, però, in maggio, i semi ordinati risultarono non vitali.
Adinandra milletii, Ternstroenis japanica e Stewartia pseudo camellia/sinensis, tutti dall’H.B. di Lucca, ricevuti alla A.Di.P.A. in aprile, non sono mai vitali (maturano in ottobre); Schima argentea, seme di tipo piatto, alato come Stewartia, sembra meno “critica”, e germoglia ad intervalli, fra 20 e 80 giorni circa, sia a febbraio (circa 70-80%) come in novembre (idem), anche se talvolta la ditta incrementa il contenuto di una bustina, dichiarando di aver riscontrato un “calo di germinabilità”- ed è verosimile, considerando le specie affini.
Quest’anno, di semi acquistati in luglio però, non ne è germinato nessuno così come, in aprile, Schima wallichi, benché acquistata di “fresco” arrivo. I semi (piatti, alati) di Franklinia alatamaha si conservano - a temperatura ambiente – non più di due-tre mesi. Le plantule comparvero a “scaglioni”, quando ogni 15 giorni circa, reidratavo a fondo il vasetto di semina. E’ una di quelle specie in cui l’alternanza di secco – inzuppato – secco attiva la germinazione, ogni volta di un nuovo gruppetto di semi. E’ rischioso per le plantule già germinate, sensibili ai marciumi; occorre fare asciugare bene il terriccio tra due idratazioni, e meglio seminare singolarmente, evitando così reidratazioni superflue (e rischiose) per attivarne i semi rimanenti.
Sarebbe inoltre opportuno seminare o porre il vasetto in frigorifero, sino a febbraio, nelle località in cui il mese di maturazione/semina (settembre/ottobre) fosse ancora caldo.

Erythococca meynhartii, Euforbiacea “aberrante” dai semi pressoché identici a quelli di Passiflora/Adenia – sicura testimonianza di un antichissimo collegamento tra le due Famiglie. Similmente a questi, i semi non sembrano immediatamente deperibili: in marzo, germinazione del 40 % (in 20/30 gg), plantule marcite per “eccesso” – per modo di dire – di acqua; circa 30 % di germinazione in giugno – in agriperlite pura, e le piante vivono più a lungo ma, anche qui, un’annaffiatura di “troppo” le uccide; nuovo tentativo in agosto, ma non nasce nulla: probabilmente muore per eccesso di acqua. Nuova semina in ottobre, e dopo 40 giorni, 1/2 semi stanno ora germinando normalmente.
Seminate in febbraio, germogliano alla fine di marzo; una semina da novembre, esposta alle stesse temperature, germina a metà aprile: ignoro finora il senso di queste anomalie. Una semina a fine maggio dà i primi (3-4 su 25) risultati dopo un mese (in serretta): riescono meglio in ambiente caldo-umido (germinatoio a “serretta”) usando però un substrato molto drenante (pomice, perlite e poca vermiculite). Infine, a fine giugno, in una “serretta” meno riscaldata (dal sole), germinano, circa 15 su 25, in soli 20-25 giorni.
Nulla sinora neppure da Spirostachys africana, i cui semi, localmente noti come “jumping beans”, sono quasi regolarmente “abitati” da una larva, i cui movimenti fanno, per l’appunto, “saltare” i semi: ma temo che il problema, come per i morfologicamente simili Sapium, Mallotus o Macaranga, ancora consista nella elevata ossidabilità degli olii.


Semi oleosi anche quelli delle Flacourtiaceae: i più grossi, come quelli di Pangium edule, usati per l’estrazione locali di olii.
Molto piccoli invece quelli di Trimeria trinervis, che maturano in ottobre/novembre in Sudafrica; germ. erratica, 20/40 % entro due mesi, ma, già in marzo, la germinabilità si è ridotta al 5% circa. Ma quest’anno, a fine maggio, la semina di T. trinervis dà 10 plantule – su 25 semi, con 3 marciumi dei semenzali – in circa 15 giorni: sono risultati contraddittori, mi limito qui a riportarli. Unica differenza nell’uso del substrato, l’ultimo era un misto di perlite e vermiculite, molto leggero.
“Ufficialmente” ritenuta deperibile è la affine Kiggelaria africana, che la stessa ditta raccomanda di seminare immediatamente acquistandoli in marzo/aprile, non appena maturano; entro un mese, la germinazione è intorno al 90/100 %, (in 15/30 gg); ma già in giugno/luglio, è scesa praticamente a zero: su 100 semi, piantati a metà giugno, solo uno ne germogliò, ed in questo caso dopo ben quattro mesi!
La plantula derivatane è però robusta e vitale, con un ritmo di accrescimento assolutamente normale. Una seconda piantina germina poi, quasi a metà novembre, all’aperto. Quest’anno (2003) Kiggelaria, seminata il 17 maggio, sino ad ora (fine giugno) non dà alcuna germinazione, (semi dell’anno precedente?).
Sempre in marzo/aprile matura Dovyalis caffra che, seminata in luglio, risulta già del tutto non vitale: invece, semi raccolti a settembre, (H.B. di Lucca), e subito seminati, germogliarono tutti (12/12) in 15/30 gg. Dal Sudafrica, acquistai semi che piantai l’11 di maggio, hanno dato quasi l’80% di nascite, in circa venti giorni. (Maturano lì in marzo/aprile).
Mai nulla in passato da Flacourtia indica, (dai semi similissimi ai precedenti), seminata in dicembre e poi in marzo. Ma quest’anno (2003) ottengo 5/6 germinazioni (su 25) per semi acquistati a fine febbraio: dovrebbero maturare in dicembre/gennaio, e forse gli anni precedenti avevo ricevuto semi vecchi di un anno, totalmente non vitali. Una seconda semina il 27/5, con la prima germinazione attorno al 6/6, e la quarta (su 50 semi) attorno al 22/6 (forse le elevate temperature della “serretta”, 40-45 C°) raggiunte di giorno, hanno rappresentato l’elemento di successo; ma l’elevata umidità ha pure determinato il marciume di 2/3 piantule, su dieci.
I piccoli semi globosi di Idesia polycarpa sembrano assai più serbevoli (almeno un anno, soprattutto se lasciati nella bacca, anche se la germinazione è irregolare (20 gg – 4 mesi; meglio vernalizzare) e c’è il rischio di marciume per le plantule già germinate (anche qui, l’alternanza secco-idratato-secco sembra “svegliare” i semi che si ostinano a quiescere).
Non credo che la vitalità duri comunque oltre i due anni, almeno non con percentuali apprezzabili.
Simili i semi (e simile situazione) anche per Scolopia zeyheri (Sudafrica), arbusto di zone semiaride, a crescita medio-lenta: i semi, contenuti nella bacca essiccata, dopo un anno sono perfettamente vitali (circa 80% germ.), dopo un anno e mezzo o poco più, ancora il 50-60% è vitale; dopo tre anni, sono tutti secchi ed irrecuperabili.
Si trattava comunque, è bene precisarlo, di semi rimasti all’interno del frutto, essiccato; altri acquistati già “puliti”, dopo neppure un anno erano inutilizzabili.

Vorrei perciò qui smentire una diffusa convinzione riguardante la necessità di “pulire ed asciugare” i semi, per meglio conservarli: ciò potrà valere per molte specie ma, nella più parte dei casi, la PERMANENZA nel frutto è invece raccomandabile, poiché arresta o rallenta presumibilmente l’ossidazione che, a tale tipologia di semente, risulterebbe fatale.

Di Azara microphylla, semi come sopra, ma “puliti”, non mi sembra di ricordare che sia mai nato nulla (semine di 5/6 anni fa).
Infine, semi (piatti, irregolari – o non del tutto sviluppati?) di Poliothyrsis sinensis, di cui coltivo un piccolo esemplare, sembrano del tutto sterili, non germinano nemmeno se seminati subito – ed analoghi riscontri mi comunica l’esperto socio Dott. Maurizio Vecchia; eppure, i fiori sono “perfetti”, forse occorrerebbe una impollinazione crociata; Carrierea calycina, simile al precedente, di cui acquistai i semi (assai simili ai primi) nel novembre 1997, non dette similmente alcun esito. Per quest'ultima specie, purtroppo, non esiste più neppure un fornitore.
Quest’anno ho acquistato semi di Casearia nitida, simili a quelli di Aberia, da EXOTISCHE SEMENTES: seminati il 15 gennaio, 3 su 10 germinarono, in 15-20 giorni, ma troppo deboli, e, danneggiati da un’innaffiatura di troppo, sono marciti tutti. Altra semina a metà febbraio, ma nessun seme era più vitale. Per Xylotheca kraussiana, (semi di 4x6 mm), germogliano per il 40% in agosto, in 15/30 giorni.


Passando, in questa prima, rapida esposizione, alle Solanaceae, menzionerò le due specie da cui mai ottenni germinazioni: Duboisia hopwoodi ed Anthocercis littorea, entrambe australiane, a seme piccolo (per la prima, simile al tabacco) e se l’analogia si estende anche alla biologia del seme, non dovrebbero esserci grandi problemi di longevità (Nicotiana dà germinazioni, benché scarse, anche dopo 3/4 anni e forse più); è un problema, già dissi, di molte specie australiane, (e sudafricane), per le quali si consigliano i “Seed-Primer” di Kirstenbosch – da me però usati senza apparenti risultati.
Anche se il genere Solanum è notoriamente “facile”, di questo pure, le specie australiane sembrano problematiche. Si dà ai Solanum una “vita media” di un anno, con punte di due come residua germinabilità, ma, per le specie australiane (spesso xerofile) il problema sembra diverso; infatti, S. lasiophyllum, vecchio di forse tre anni, dette 3/4 piantine – su 15/20 semi – anche se poi queste si rivelano assai vulnerabili ai ristagni idrici – mentre nulla ho mai ottenuto da S. symonii, S. phlomoides, S. chippendalei, S. simile ecc. dopo sei e più mesi dalla semina (le specie più usuali germinano in 10/40 gg.); ho ispezionato e sezionato alcuni semi, che non apparivano però marciti; suppongo fossero quiescenti, benché non seppi come attivarli – anche l’alternanza secco – inzuppato – secco potrebbe forse aiutare.
Almeno per le specie con frutto a bacca disseminati da mammiferi, la germinazione potrebbe essere attivata da enzimi digestivi (empiricamente, consiglierei il succo di Carica papaya (o Carica sp.) soprattutto delle foglie, ricche di papaina).
Tentare varie temperature, tra i 25 e i 35 C° (ignoro quale sia la temperatura per cui l’azione enzimatica della papaina è massima).
Dopo poche ore di trattamento (a simulare i processi naturali, ma tenendo conto dell’essere la Papaina un surrogato), si dovrebbe però, in base a quanto inizialmente esposi, trattare con qualche prodotto indolico, (MELATONINA, ossi-triptofono o altri) meglio se con un po’ di letame (batteri decarbossilanti) ad imitazione dei composti con i quali questi semi vengono a contatto in un secondo tempo.
Ho notato anche una mancata germinazione (in cassetta) di uno strano Solanum sudamericano (simile a S. citrullifolium) con corolla lilla zigomorfa – simile un po’ a Bauhinia – spinosissimo, vischioso e - sembra – insettivoro; eppure questa specie, seppur sporadicamente, si autosemina sempre, all’aperto. Si noti che in questa specie, il frutto è racchiuso in un calice accrescente spinosissimo1 – perciò nessun animale dovrebbe nutrirsene – e i semi sono neri, credo per sfruttare meglio l’effetto termico dei raggi solari, e forse per questa ragione, se seminati al buio non germinano (anche fra gli affini Capsicum, la specie C. pubescens – di zone più fredde – benché baccato, ha semi neri, forse anche qui per sfruttare al massimo l’irradiazione solare)2.


Difficile – o meglio erratica – la germ. di Hyosciamus soprattutto se si considera trattarsi di specie annuali-biennali: la struttura stessa dell’infruttescenza, dalle capsule a “pissidio”, suggerisce un “rilascio” graduale dei semi, quindi uno “scaglionamento programmato” delle germinazioni. Anche in Datura si riscontra un analogo, evidente scaglionamento che copre intervalli di 3/5 anni; resta il fatto che Hyosciamus, pur producendo in proporzione altrettanti semi, in natura è assai più raro e localizzato di Datura; sarebbe interessante comprenderne la ragione.
Altri tre “problematici” generi affini sono Atropa, Mandragora e Scopolia (in ordine crescente di difficoltà, per le prime due, so per esperienza che la terminabilità persiste sicuramente per almeno un anno, ma la germinazione è imprevedibile).
Per Scopolia carniolica– acquistata in autunno / inverno da CHILTERN SEEDS, per tre volte – neppure una sola germinazione. Alcuni suggeriscono di trattarli con una soluzione idro-alcolica al 40/50%, è una possibilità da tentare, ma raccomanderei che tali trattamenti abbiano breve durata. Più opportuna mi pare la vernalizzazione.
Per Vestia foetida (Cile) la germ. è un po’ erratica (da 20 a 90 giorni) in genere concomitante con la reidratazione del vasetto (teme i ristagni, è bene far asciugare completamente tra una annaffiatura e l’altra, ed usare vasetti piccoli – nei climi caldi, meglio seminare a fine estate (agosto), o presto in febbraio, cosicché le plantule, che soffrono il caldo, giungano sufficientemente irrobustite all’arrivo di questo.

Anche per le Anacardiaceae, la perdita di germinabilità può rappresentare un problema, in alcuni casi, ad es. in Mangifera il seme, benché rinchiuso in un endocarpo rigido, si disidrata a temperatura ambiente nell’arco di 2/3 settimane al massimo.
Più spesso, il problema sembra rappresentato dalla originaria aplasia embrionale. In molti Generi delle Anacardiaceae, il “seme” con cui il coltivatore ha a che fare, è in realtà un ENDOCARPO, più o meno legnoso, al cui interno è sito il “vero” seme, spesso più di uno.
Le Anacardiaceae, però, annoverano spesso specie dioiche, rendendo quindi necessaria la compresenza di ambo i sessi per la fecondazione; tuttavia, l’assenza dell’impollinatore sembra non essere d’impedimento, ciò che è curioso, per la allegagione del frutto, che risulterà esteriormente normale, una volta giunto a maturità; al suo interno, ci si illuderà di trovare un grosso “seme” legnoso ma, in realtà, tale endocarpo è, in questi casi, pressoché vuoto.
L’ex presidente dott. Naccarati notava infatti, in un suo articolo (Le piante donate dal Presidente all’H.B. di Lucca), come un singolo esemplare femminile di Harpephyllum caffrum, specie dioica, giungesse sorprendentemente a maturare frutti nel suddetto Orto Botanico; dall’articolo non si apprende se tali frutti siano mai stati utilizzati per la semina; quasi certamente l’esito sarebbe stato negativo. Ho personalmente acquistato semi di H. caffrum, dal Sudafrica, che, in gran parte, si sono rivelati “vuoti”: ciò non costituisce certo una regola, dipendendo dalle condizioni di “promiscuità” o viceversa di isolamento in cui la pianta madre si trova, comunque consiglierei a chi volesse coltivare tali piante, garantendosene oltretutto la disponibilità di maschi e femmine, di optare, per maggior sicurezza, per l’acquisto di quantitativi maggiori (50/100 semi).
Mai ho ottenuto germinazioni – salvo 2 o 3 stentate ed “abortite” – dalle varie specie della sudafricana Ozoroa; e la totalità o quasi dei frutti aperti risultava “vuota”.
Risultati simili per Lythraea sp., grosso albero sito nell’H.B. di Roma, che allega numerosi frutticini verdi, anch’essi per lo più vuoti.
Infine il problema riguarda alcuni Schinus (S. molle e S. terebinthifolium), sia per semi raccolti, sia acquistati; invece, S. dependes (all’H.B. di Roma, presenti sia maschi che femmine) germina regolarmente.
Fra le specie con endocarpo legnoso, Sclerocarya birrea non sembra presentare tale inconveniente: i semi inoltre mantengono – per mia esperienza – almeno il 40/50 % di vitalità dopo tre anni e più, germogliando irregolarmente in 20-90 giorni (in media 30-40). Ogni “nocciolo” contiene due, talvolta tre “veri” semi, perciò, dopo che la prima plantula germinata avrà sospinto il “nocciolo” fuori dal terreno, sarà opportuno re-interrarlo, consentendo la germinazione anche del secondo seme.
Temono molto ristagni e marciumi, soprattutto in questa fase.
Se si utilizzano contenitori grandi (vasi di 18 Ø in su) per semine “collettive”, è possibile anche usare soltanto argilla espansa (piccola) o pomice pura, purchè annaffiate allora regolarmente; ciò vale anche per altri semi di analoga tipologia strutturale-dimensionale. Le radici tuberizzate di questa specie, ed il riposo (caducifoglia per siccità) consentono, sia pure con cautela, di dividerle poi agevolmente.
Semi di Semecarpus anacardicum, acquistati in Aprile, poi in Agosto, germinano in 5-15 giorni, in substrato sciolto e drenante; marciscono se seminati in profondità, meglio in superficie, tenendo umido al coperto. Teme eccessi idrici, mentre resiste bene alla siccità, anche come plantula. Semi acquistati in gennaio non erano più vitali.
Spondias dulcis e S. mombin ad endocarpo legnoso, germinano molto lentamente ed erraticamente: su 5 semi acquistati, nell’Ottobre 2001, (seminati in casa), una piantina germogliò improvvisamente, nel giugno 2002, nel terriccio ormai asciutto da quasi un mese (!); reidratandolo, nei 30-40 giorni successivi emersero altre 6-7 piantine; una successiva germinazione a fine settembre, ed un’ultima infine nel marzo 2003; purtroppo le necessarie “reidratazioni” provocano il marciume di qualche esemplare già sviluppato (hanno radici tuberizzate). Conviene quindi asportare e riseminare i “noccioli” ancora non germogliati – anche qui, ognuno contiene due semi, quindi attenzione a non gettarli via. S. dulcis, con “noccioli” un po’ più piccoli, dà pure germinazioni “rapide” in circa 20/30 giorni.
Laurophyllus capensis, seminato in Agosto, mi dà per ora -dopo venti giorni- una sola germinazione.
Per Loxostylis alata, sudafricano, ho ottenuto alte percentuali di piantine (in 15-30 giorni) in luglio-agosto, ma anche nessuna germinazione (acquisto del dicembre scorso). Quest’anno, in maggio, ottengo nove plantule (su 25 semi) in 15-30 giorni.
Per il Genere Rhus, i risultati sono molto variabili, purtroppo non ho tenuto annotazioni esatte delle esperienze, ma sembra che ci siano perdite significative di germinabilità, seppur non repentine.
Di Rhus lancea, (seminata ottobre 2002) una germinazione nel dicembre 2002, ed una seconda nel febbraio 2003, poi più nulla (su 25 semi).
Per R. nebulosa, acquistato (presumibilmente fresco) nel maggio 2003, le prime 3-4 germinazioni ( su 25) già in 15 giorni; più lento Rhus leptodyctia, (stessa epoca), la prima germinazione dopo tre settimane; ma poi, entro due mesi, la germinazione è pressoché del 100% (nelle altre specie, al massimo 4/5 plantule su 25 semi).
In generale, le specie nord-americane (R. quercifolia, integrifolia, ecc.) germogliano bene dopo una lunga vernalizzazione.
I risultati più sorprendenti riguardano però l’australiana Rhodosphaera rhodanthema, con endocarpo legnoso: maturano in novembre e vengono indicati come “deperibili”.
Li ricevetti, e li seminai a fine maggio, senza particolari speranze; a settembre, però, spuntò una robusta piantina addirittura in pieno gennaio (all’aperto), con temperature notturne anche al di sotto dello zero, un secondo esemplare, di questa specie tropicale, germogliò vigorosamente (!), restando del tutto indenne ai venti gelidi che caratterizzarono questo freddo inizio d’anno (2003).
P . S. ben 8 anni più tardi, 3 plantule germogliarono da terriccio riutilizzato, in cui erano ancora presenti gli endocarpi!

- FINE PRIMA PARTE -

Edited by fabrizio3 - 24/7/2017, 02:12
 
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